Le cere nel Presepe Napoletano

Una cronaca del 1702 testimonia che, nella stanza da letto del re Filippo V in visita a Napoli, vi era una scarabattola dorata contenente la scena della Natività ed alcuni pastori in adorazione di misura terzina (cm 30) con teste ed estremità in cera e con abiti dell’epoca; l’esistenza di questa bacheca avalla l’ipotesi che anche presso la corte, così come in molte case napoletane, si amava tenere fissa una scena della Natività per l’adorazione quotidiana.
E’ ancora esistente, in una collezione privata, una Natività ambientata in una grotta; in essa la scenografia, composta da sugheri ricoperti di gesso, è tutta adornata da vegetazione e fiori realizzati in cera e seta, mentre il muschio e le altre parti sono rifinite con cera colorata, in modo da dare all’insieme un’apparenza quasi fiabesca. Popolano la scena 18 figure alte 35 centimetri con testa ed arti in cera e puttini ed angeli interamente modellati nello stesso materiale; queste figure sono presumibilmente da attribuire a Caterina De Julianis (1695 – 1742). Ella fu un’abilissima ceroplasta, di lei sappiamo con certezza che realizzò anche paesaggi ed architetture presepiali sempre in cera. Un altro plasticatore di figure in cera fu Padre Benedetto Sferra che realizzò, nel 1744, il gruppo della Natività per la sacrestia della chiesa di S. Maria a Caponapoli.
E’ probabile che con l’avvento dell’utilizzo di figure plasmate con la creta, e quindi più resistenti all’usura, le raffigurazioni in cera caddero in disuso essendo relegate alla sola realizzazione di immagini sacre e bambinelli, e cioè ad uno scopo più esclusivamente devozionale e non assimilabile alle rappresentazioni spettacolaristiche tra le quali, già alla meta del ‘700, il presepe napoletano si andava a connotare.
Tuttavia la storia della ceroplastica non si arresta ed anzi, esplode in tutta la sua lussureggiante bellezza attraverso la riproduzione in miniatura di magnifiche nature morte costituite da cesti di frutta esotica e nostrana di tutte le stagioni, emananti un senso del favoloso che solo il presepe napoletano riuscì a concepire, sicuramente retaggio di quelle pitture “di genere” che tanto in auge furono nel periodo del Barocco napoletano e delle quali autori come Giovan Battista Ruoppolo, Giuseppe Recco, Giacomo Nanni, furono tra i massimi esponenti. E’ opportuno chiarire che, nelle varie composizioni, l’illogica commistione di frutta ed ortaggi di tutte le stagioni non è affatto arbitraria, come si può semplicisticamente pensare, è invece la riprova dei racconti apocrifi secondo i quali, all’apparire di Gesù sulla terra, tutta la natura si risvegliò esternando, in una dirompente fioritura e fruttificazione, la sua gioia.
Già dall’ ’’invenzione” della scena della taverna, introdotta nel presepe tra la fine del seicento ed i primi del settecento, possiamo affermare che molte delle libagioni esposte in bella mostra erano delle pregevoli riproduzioni in cera; d’altronde, gran parte del fascino e delle fortune del presepe napoletano settecentesco si devono proprio alla miriade di accessori e finimenti che contribuiscono a rendere vivo e reale lo spettacolo, tra questi sono certamente le riproduzioni di miniature in cera gli elementi che meglio lo caratterizzano.
Nella bibliografia del settore vengono riportati alcuni nomi di autori di ceste di frutta e commestibili in cera: Gennaro Ardia, vissuto tra la fine del ‘700 ed il primo ventennio dell’800; Francesco Gallo, anch’egli vissuto nello stesso periodo, è l’autore più conosciuto, plasticatore di ortaggi, di frutta ed altri accessori in terracotta e cera, a lui fu chiesto a corte di dare lezione di lavori di frutta in cera al naturale ai prìncipi reali ed altre nobili famiglie; a Luigi, detto Fariniello, si assegnano molti eleganti cestini di frutta ed una grande varietà di “spaselle”, ovvero bassi cesti realizzati per adornare i banchi dei pescivendoli.

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